Gli animali sono oggetti, liberarli è una rapina… (presidio – Milano 25/6)

Questa è la storia dell’incontro fra una cena e una persona.

L’11 ottobre 2007, sulla ghiacciaia del pam di via Olona di Milano, sotto gli occhi di tutti, qualcuno agonizzava. Agonizzava da giorni. Il corpo gelato, i sensi annebbiati dal freddo. Agonizzava senza sapere perchè. Agonizzava e aveva paura.


Sdraiata su una ghiacciaia, una cena conosceva il terrore, il dolore, la nostalgia… Quella cena, in silenzio, urlava… Quella cena che sognava il mare…


Un continuo rumore copriva quel grido silenzioso e disperato, rendendo quel qualcuno cena silenziosa.


Ma ascoltando per un attimo il silenzio, era impossibile sottrarsi alle urla inascoltate di una cena, che in silenzio piangeva.


Quel giorno, una cena e una persona si guardavano e si ascoltavano. E poi correvano, insieme, verso il sogno di chi era nato astice ed era stato trasformato in cena. Verso il sogno di chi, sognando, piangeva.


Ma una ragazza ora correva fuori da un supermercato con in mano una cena!


L’uomo saltava giù dal camion e bloccava quella ladra di cene costosissime. Chiamava la polizia, per fermare definitivamente quella criminale.


Quella sera, mentre una ladra veniva arrestata per rapina, una cena cuoceva…
 
Alle 13 di giovedì 5 marzo, avrebbe dovuto avere luogo l’udienza di dibattimento del processo per rapina, in cui avrebbe dovuto essere letta la lettera di rivendicazione che incolliamo qui sotto. All’ultimo momento però l’udienza è stata rimandata al 25 giugno. Abbiamo comunque deciso di cogliere quest’occasione, per poter urlare che un animale non è una cena e che una liberazione non è una rapina.

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Giovedì 25 giugno avrà luogo l’udienza di
dibattimento. Contemporaneamente, si svolgerà un presidio per la liberazione
animale:

25 GIUGNO

ORE 10, MILANO P.ZZA CADORNA

ORE 15, VIA OLONA (DI FRONTE SUPERMERCATO PAM)

Ognuno sarà il benvenuto, ma ci
piacerebbe non avere sigle o bandiere, per dire ciò che profondamente sentiamo come
persone.

Intanto, nel tribunale dei minori di Milano, verrà letta la rivendicazione che incolliamo qui sotto. 
astice
 
Cogliamo l’occasione per ringraziare tutt* quell* che hanno a vario
tit
olo manifestato la loro solidarietà all’imputata ed i loro
sentimenti verso gli animali sfruttati: alcuni di questi messaggi sono stati pubblicati sul blog

 
LETTERA DI UN ASTICE AD UN GIUDICE

UNO DEI MILIONI… PROPRIO UNO… PROPRIO LUI…


Immaginate per un attimo di essere sdraiati in una scatola di vetro, a
pancia in giù sul ghiaccio, con mani e piedi legati…

 
LETTERA DI UN ASTICE AD UN GIUDICE

UNO DEI MILIONI… PROPRIO UNO… PROPRIO LUI…
 
Immaginate per un attimo di essere sdraiati in una scatola di vetro, a
pancia in giù sul ghiaccio, con mani e piedi legati e un pezzo di
nastro adesivo sulla bocca. E’ ormai una giornata che siete in quella
posizione, o forse cinque minuti, in effetti vi è difficile dirlo con
precisione. Siete legati in mezzo a centinaia di giganteschi pacchetti
di tetrapack, sacchetti di plastica, bottiglie di lemonsoda, elastici e
spazzole per capelli. Centinaia di persone si muovono intorno a voi. Vi
guardano, ma sembrano non vedervi, prese a saltare da uno scaffale
all’altro, come tutte spinte da uno stesso impulso perverso a voi
sconosciuto. Quante ore, o giorni, o minuti saranno passati? qualcuno
si ferma, vi osserva, dice qualcosa in una lingua incomprensibile.
Un’altra voce risponde da dietro la vostra testa, che è ormai talmente
infreddolita da non pensare nemmeno di poterla provare a girare. Da
quanti anni, o giorni, siete chiusi lì dentro? ogni secondo dura un
minuto, ogni minuto un’ora, mentre contate il tempo secondo dopo
secondo, e ad ogni secondo vi chiedete quanti altri ne dovranno
seguire. Un guanto enorme si protende verso di voi, vi solleva. La
prima voce parla un’altra volta e voi vi ritrovate di nuovo con la
pancia sul ghiaccio. Qualcuno di fianco a voi viene sollevato a sua
volta e chiuso in un pacchetto di cellofan. Due persone, mentre
scelgono le patatine fritte nello scaffale vicino al vostro, guardano
la scena come fosse la cosa più normale del mondo. Tutti intorno a voi
si comportano come se lo fosse.




Voi li guardate senza capirli e vi chiedete perché siete chiusi lì
dentro… e forse è un bene che di questa domanda non possiate
conoscere la risposta…




Io vivevo nel buco di uno scoglio (forse questa frase avrei dovuto
interromperla a "io vivevo"…), levigato dalle onde del mare.
Conoscevo perfettamente il mio fondale e sapevo che ogni onda avrebbe
portato qualcosa di diverso e di nuovo. Me ne stavo lì, per giornate
intere sulla mia roccia, a sentire il risucchio delle onde sul mio
corpo immobile.




Non so come abbia fatto a ritrovarmi catapultato all’inferno, è stato
un attimo, quello che mi ricordo è solo il fondo del mare, e poi
decine, centinaia di pesci schiacciarsi e contorcersi sulla mia schiena
e sotto la mia pancia. L’acqua che scendeva, sempre di più,
trascinandoci verso il basso, lasciandoci soffocare sempre più
schiacciati l’uno sopra l’altro in balia della forza di gravità,
ammucchiati come una catasta di legna. Avevo paura, non capivo.
All’improvviso siamo precipitati su un piano duro e asciutto. Vedevo
tutti morire soffocati, in preda alle convulsioni.




Poi mi sono sentito sollevare, qualcosa di stretto e doloroso mi
costringeva le chele. Io non capivo, non sapevo cosa stesse succedendo,
tuttora non so cosa sia successo né cosa succeda. Non so come né perchè
mi sia ritrovato all’inferno. Il mio corpo è atrofizzato dal ghiaccio.
Fatico a muovere le zampe. Un dolore costante e logorante mi stringe la
testa e non mi lascia un solo istante di tregua. Mi chiedo perchè, mi
chiedo cosa sia il posto in cui mi trovo. Dove sono le onde del mare?
Mi chiedo da quanto tempo mi trovo qui e quanto ancora ne dovrà
passare. Mi chiedo se sarà questo il posto in cui dovrò morire o cosa
ancora mi aspetti. e intanto aspetto, aspetto rassegnato, secondo dopo
secondo. Conto il tempo, senza lasciar passare un solo secondo senza
chiedermi come e perchè sia stato strappato al mio mare e se mai potrò
rivederlo.




E grido in silenzio, perchè voi non la potete sentire la mia voce
straziata. E imploro chi di voi ha un cuore di riportarmi a casa.




Un astice dei milioni… proprio uno… proprio io…




In questo processo ci sono due parti in causa: una si deve difendere
dall’accusa di rapina, l’altra è quella che accusa. Ogni anno migliaia
di astici muoiono bolliti vivi, miliardi di animali vengono torturati
uccisi per soddisfare il nostro palato. Al mondo esistono milioni di
lager, in cui gli animali non sono che numeri, fatti nascere al solo
scopo di essere sfruttati e uccisi, considerati alla stregua di
macchine che convertono i mangimi in carne, latte, uova, pellicce,
risultati di esperimenti.




Trovo ai limiti dell’assurdo che in questo processo sia io a trovarmi
al banco degli imputati, per questo motivo ho voluto con la presente
lettera chiamare a testimoniare la vera vittima di tutta la vicenda,
l’unico testimone che credo meriti veramente di essere ascoltato.
Purtroppo ho dovuto usare sentimenti, parole, sensazioni e pensieri
umani per provare a rendere vagamente l’idea della profonda angoscia e
del dolore provati dall’animale, e dell’insensatezza della diffusa
convinzione che chi ne è responsabile sia nel giusto. E’ evidente che
si tratti di un espediente letterario e sono consapevole del fatto che
l’astice non possa aver provato tali sensazioni così come descritte, ma
era l’unico modo per rendere l’idea avvicinandosene il più possibile.
So comunque di non essere riuscita nel mio scopo, tuttavia non avrei
potuto in alcun modo farlo. Si tratta di situazioni che chi ha vissuto
non potrà mai raccontare e da chi non sono state vissute non potranno
mai essere comprese… mai sul serio… mai fino in fondo… Tuttavia è
sufficiente guardare un animale negli occhi per capire che dietro ad
ognuno di loro, così come ad ognuno di noi, si trova un intero mondo,
un mondo che nessuno ha il diritto di distruggere deliberatamente.




Considero questo processo un’occasione per provare a dare voce a tutti
coloro le cui grida straziate non fanno che rimbalzare contro un muro
di silenzio. Ritengo necessario non rinnegare quelle che sono state le
vere ragioni del mio gesto per fermarci tutti un attimo a riflettere su
cose erroneamente date per scontate, io con voi.




Il grattacielo in cui viviamo, la cui cantina è un mattatoio e il cui
tetto è una cattedrale, dalle finestre dei piani superiori assicura
effettivamente una bella vista sul cielo stellato. Ed il tutto si regge
su un pregiudizio, simile a quello razzista o sessista, il pregiudizio
antropocentrico, che giustifica la diversa considerazione degli
interessi su base di specie. La scala dei valori è stata completamente
ribaltata, conformemente alle esigenze umane, fino al punto di
attribuire diverso valore alla sofferenza a seconda del grado di
"razionalità" di chi la prova, senza minimamente considerare il fatto
che sentimenti e sensazioni come dolore, paura, istinto ed interesse
alla sopravvivenza, terrore, percezione della vita e della morte, non
sono affatto connessi alla "ragione", ma semmai alla sensibilità,
propria degli altri animali così come dell’animale umano. A dire la
verità, comunque, non è neanche propriamente la razionalità ad essere
portata come principio discriminante, ma la mera appartenenza di specie.




Prendiamo in analisi il caso di un uomo portatore di un handicap tale
da renderlo privo di capacità razionali, ma non di sensibilità.
Ragionando in modo laico, coerentemente con l’assunto che la
razionalità sia il principio che stabilisce il valore della vita, della
morte e della sofferenza, l’individuo in questione dovrebbe essere
considerato (e di conseguenza trattato) alla stregua di un
animale-non-umano, ovvero come un potenziale mezzo che consenta ai
cosiddetti "esseri razionali" di conseguire i propri fini. Il fatto che
ciò (fortunatamente) non avvenga, rivela un’evidente contraddizione.
L’opposta valutazione che spinge in un caso ad infliggere e nell’altro
a evitare la sofferenza, non è forse il sintomo di un atteggiamento
schizofrenico? Perché non si ha il coraggio di mettere in discussione i
principi che lo ispirano, invece di elevarli a verità assolute e
indiscutibili? Se lo si facesse, forse un gesto come il mio
risulterebbe non solo comprensibile, ma addirittura doveroso ed
inevitabile.




Io ho visto la sofferenza negli occhi di quegli animali, questo è stato
il motore del mio gesto. La pietas, uno dei più nobili fra tutti i
sentimenti. Ho portato una serie di ragioni perfettamente in grado di
essere capite. Voi avete la facoltà di stabilire se restituire la
dignità ad un essere senziente sia o meno un gesto criminale, ma prima
che possiate decidere se volervi prendere questa responsabilità, voglio
appellarmi al vostro buon senso, vorrei che voi provaste a chiedervi:
siete fino in fondo sicuri di avere il diritto di farlo? E siete certi
di poter soprassedere su quanto sopra detto?


…E siete disposti a prendervi la responsabilità di riconoscere la tortura e di condannare la compassione e l’empatia?

Contatti: empatia.animale [at] gmail.com

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